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Una conversazione con Simona Ghizzoni | cARacTères

Simona Ghizzoni è una fotografa e regista italiana, nata a Reggio Emilia, vive a Roma. Ha iniziato la sua carriera studiando musica e arte. Dal 2005 si occupa di progetti documentaristici dedicati soprattutto alla condizione delle donne; contemporaneamente conduce una ricerca personale intitolata Rayuela, che esplora, quasi nella forma di un diario, il proprio femminile. Tra i suoi lavori più noti: Odd Days (2006-2010), un progetto a lungo termine riguardante i disturbi dell’alimentazione e il difficile percorso di guarigione; Afterdark (2010-2013), che indaga le conseguenze dei conflitti sulla vita delle donne nell’area del Mediterraneo; UNCUT (2015) sulle mutilazioni genitali femminili in Africa e in Europa. I suoi lavori sono stati pubblicati su The International New York Times, L’Espresso, Io Donna, il Corriere della Sera, El Paìs, e molti altri. È stata premiata da World Press Photo, Poyi, the Aftermath project, BBC Arabic Film and Documentary Festival, Margaret Mead Film Festival, Leica Oskar Barnack Award e Sony World Photography Award. È socia fondatrice di MAPS (www.mapsimages.com) e dell’associazione ZONA (www.zona.org). Dal 2017 è ambasciatrice Canon.

 

Rayuela, Self-portrait as a peacock, 2013

 

Prima di ogni cosa vorrei domandarti: cos’è la fotografia per te?  Rappresenta più una traccia e testimonianza della realtà, è uno strumento d’indagine o un atto creativo?

Sicuramente tutte e tre le cose e sicuramente in alcuni periodi una delle tre cose ha avuto e ha ancora una valenza maggiore rispetto alle altre. Quando sto lavorando su tematiche più legate al sociale è senza dubbio uno strumento di ricerca del reale, ma anche in questo caso la creatività in realtà ha sempre spazio. Quello della creatività è in effetti un argomento insidioso, soprattutto quando si parla di reportage e fotografia documentaristica, o quando si parla della vita degli altri; è una questione delicata e spinosa. Consciamente o meno uno ci mette del suo dentro, quindi è un po’ un mito quello che ci sia un tipo di fotografia che è completamente oggettivo. Di fatto l’atto creativo torna sempre: se cerchi di buttarlo fuori dalla porta, rientra comunque dalla finestra.

 

Quando hai deciso che la fotografia sarebbe diventata il tuo mestiere?

Non l’ho mai deciso, è capitato. Con un premio della FNAC che vinsi nel 2007 per un primo lavoro che avevo fatto in maniera molto ingenua su Sarajevo. Si trattava di un diario di viaggio nei Balcani. Da lì si è sviluppata una catena di cose, per cui poi ho iniziato a conoscere delle persone che lavoravano nell’ambiente, mi sono fatta dare dei consigli e dopo ho continuato. Però non mi sarei aspettata di fare questo lavoro. Al tempo sognavo una carriera academica, pensavo a tutt’altro.

 

La tua ricerca si sofferma prettamente sulle figure femminili, sul loro dolore ma anche sulla loro forza. Hai fotografato donne dell’Occidente, donne africane e donne mediorientali. Quali sono i tratti comuni e le differenze, se ce ne sono, tra di loro e le loro battaglie?

Shirin Neshat ha detto che il femminismo è molto più mediorientale che occidentale. Sicuramente ci sono certe battaglie che qui noi diamo per acquisite, che sono invece ancora attive in altri Paesi, per altre donne. Quindi è molto interessante vedere come, mentre noi ci siamo forse un po’ accomodati, nei Paesi che ho visitato invece è molto forte la questione dell’identità femminile, del ruolo della donna, e così via. Personalmente ho trovato molte somiglianze, ed è pazzesco come nei luoghi del mondo in cui ti immagini di non trovare nulla in comune con queste donne: storia, lingua, background, cose viste, stato sociale, qualsiasi cosa… eppure non è mai mancato in nessuno di questi viaggi un terreno comune, che poi è quello del desiderio di vivere una vita piena, di migliorare la propria condizione, di essere felici, di essere liberi.

 

Afterdark, Jamila, 2011

 

Come affronti l’entrare in contatto con i tuoi soggetti, come costruisci e come imposti il rapporto con loro?

Io conosco praticamente sempre i miei soggetti prima, tranne all’inizio quando ho realizzato il diario di viaggio a Sarajevo in cui ho fatto più fotografia di street. Il territorio in cui io mi trovo più a mio agio è quello della costruzione della relazione con i miei soggetti. Chiaramente è una cosa che varia perché il tempo non è sempre molto. Il lavoro sui disturbi alimentari è stato fatto in tre anni, in Italia, quindi comunque ho avuto tutto il tempo di conoscere le persone, di portare avanti  delle relazioni che sono diventate anche delle amicizie di lunga data. In Africa nel paesino in cui ci vogliono dodici ore di jeep per arrivare chiaramente è più complesso. Però penso che il tipo di rispetto, il tipo di atteggiamento che hai nei confronti dell’altro alla fine sia lo stesso. Magari c’è un tempo strettissimo, ma tu hai comunque quell’atteggiamento, quella voglia, quella curiosità e quel rispetto che ti fa aprire un dialogo con l’altro. Mi capita di arrivare a delle situazioni in cui non mi sento a mio agio a fotografare e non fotografo. Quando ero più giovane magari pensavo di dovermi sforzare, fare delle cose che non mi appartenevano, alla fine l’ho fatto, ci ho provato. Adesso credo di essere abbastanza cresciuta e so riconoscere i limiti, miei e altrui. I limiti personali sono una forza nel proprio lavoro. 

 

Anoressia nervosa. Residenza Palazzo Francisci, Todi, agosto 2007.

Oltre ai tuoi meravigliosi reportage con cui hai vinto ben due WorldPressPhoto nel 2008 e nel 2012, hai realizzato anche delle ricerche sulla tua immagine, degli autoritratti spesso evanescenti, una sorta di diario visivo. Come nascono queste sperimentazioni che indagano te stessa, fotografa e al tempo stesso soggetto?

Credo nascano prima di tutto il resto. Nascono da un istinto, da un intuito iniziale, dalle prime macchinette fotografiche che ho usato, quindi dai miei 19-20 anni. Nascono da una voglia di indagarsi che è quasi un desiderio adolescenziale. Ti rendi conto che è davvero qualcosa che va a scavare dentro di te, che ti modifica via via che vedi le foto, vedi te stesso e ti modifichi. Questo lavoro è stato anche una sorta di processo terapeutico nel corso degli anni. All’inizio in maniera totalmente inconscia, totalmente intuitiva, poi nel corso degli anni ha pian piano cominciato a prendere delle forme. È una sorta di flusso di coscienza: è un lavoro che va avanti da tanti anni, non cambia, continua a essere sempre molto simile a sé stesso, costante e coeso. È dove va la mia ossessione: sono ossessionata dalla relazione con la natura, con gli animali, da questi fantasmi, da questi spettri, da questa riscrittura di un quotidiano che attinge a una dimensione onirica.

 

Hai studiato storia della fotografia e la arti in generale. Quali tracce i tuoi studi ti hanno lasciato e senza le quali non saresti la fotografa e la donna che sei oggi?

Rayuela, #97, 2014

La letteratura mi ha influenzata tantissimo. Sono stata una lettrice voracissima, sono attaccatissima ai libri, anche se ora faccio più fatica a trovare dei libri che mi piacciano veramente. Sono diventata un po’ più selettiva. Per quanto riguarda la storia della fotografia, quando ero più piccolina non c’era internet e andavo in biblioteca a Reggio. Qui c’erano questi meravigliosi libri: Diane Arbus, Leonard Freed, The Americans di Robert Frank, tutta la corrente americana del reportage ecc. In particolare, ricordo di essere impazzita vedendo Diane Arbus, le sue opere e la sua storia personale, era una donna e una pioniera della fotografia. E la musica…io sono laureata al DAMS, è un’altra di quelle cose che mi hanno sempre accompagnato. Il mio sogno era di diventare una musicista in realtà. La fotografia non è solo un mestiere, si compone di tantissime cose, soprattutto del bagaglio che ti porti dietro: tutte le cose che sono successe, e tutte le cose che ho amato confluiscono nel mio lavoro. Mentre lavoro, mi capita spesso di pensare a una canzone, o di ascoltarla ossessivamente. Oppure mi viene in mente una frase che ho letto…

 

In quanto donna hai avuto delle difficoltà nella tua carriera? Sia nei riconoscimenti che nell’affrontare territori spesso difficili e colpiti dalle guerre.

Credo di guadagnare meno dei miei colleghi maschi. Inoltre, negli ultimi anni, se parliamo della parte documentaristica, c’è la tendenza a commissionare i lavori soprattutto agli uomini. Ho visto delle bellissime collaborazioni di Nadia Shira Cohen con The International New York Times, quindi cominciano a muoversi un po’ di cose anche in quella direzione, però mediamente gli uomini sono più ricercati. A volte ho notato nel corso degli anni una sorta di stupore che mi innervosiva un po’, per il mio lavorare in zone difficili, di conflitto o di post-conflitto. A livello pratico lavorando in questi luoghi non ho mai avuto nessun problema, sia nei Paesi arabi che in Africa o in Europa. Ciò che temo possa essere un problema è la mia maternità, ancora non so come andrà. Manca ancora molta strada per arrivare a un momento di uguaglianza totale in cui non sia più un problema essere mamma e artista o semplicemente imprenditrice di sé stessa. Vedremo…io sono diventata mamma da pochissimo!

 

Rayuela, #30, 2013

 

Quanto è importante la tecnica nel tuo lavoro, in base a cosa decidi se scattare in analogico o in digitale, a colori o in bianco e nero?

Nella maggior parte dei casi dipende da una questione di facilità e di possibilità. Viaggio con un po’ tutto quello che riesco a portare, il bagaglio deve essere abbastanza contenuto e quindi preferisco viaggiare con la digitale che richiede meno attrezzatura. Invece sui miei progetti personali, quelli per cui so che ho molto più tempo a disposizione, so che posso portarmi dietro anche il medio formato, il cavalletto ecc. mi piace lavorare ancora in analogico, soprattutto per il bianco e nero. Per il resto lavoro comunque in digitale.

 

Progetti in corso o progetti futuri?

A parte il lavoro sugli autoritratti che sta andando avanti e forse sta prendendo anche nuove forme, vedremo se questa maternità sta cambiando il modo di vedere me stessa. Ho scritto un progetto di fotografia partecipata per una campagna contro la violenza sulle donne. Consisterà in una mostra itinerante in collaborazione con Action Aid, si tratterà di raccontare tutte noi, le nostre esperienze di violenza, su più livelli e scale di gravità differenti. In realtà nella nostra percezione della violenza abbiamo una soglia molto alta, ci sono dei soprusi quotidiani (che hanno iniziato a venire fuori anche con il #metoo) che tendiamo a bypassare e a dare per scontati, ma sono vessazioni che in realtà sono violenze storicamente e socialmente accettate. Sarà quindi un lavoro collettivo, un lavoro partecipativo.

Uncut Kenya, Daana, 2015

 

 

De Sara De Carlo 

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“…fa la fotografa e lavora come fotografa libera. Il suo interesse va alla vita dell’uomo in tutte le sue espressioni. Crede nella fotografia come testimonianza e documento. Crede che il mezzo politico più efficace e rivoluzionario per cambiare il mondo è amare la...

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